
In dialogo con Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore, designer e direttore creativo del marchio pugliese. Con le immagini della corrispondenza anacronistica (e inedita) tra i due
Nel panorama del design italiano, Kiasmo occupa un ruolo singolare. Fondato nel 2011 a Ruffano, in Salento, il marchio assorbe i segni della cultura mediterranea per processarli, contaminarli e restituirli in chiave contemporanea sotto forma di collezioni le più varie, dalla casa al fashion. Ceramiche, tessili e complementi d’arredo sono accomunati dal tratto, riconoscibile, impresso da Vincenzo D’Alba, l’architetto che ha tenuto a battesimo il brand con il direttore creativo Francesco Maggiore e l’imprenditore Mauro Melissano, facendone un caso di scuola del made in Italy di lusso a matrice artigianale esportato in tutto il mondo.
Ma Kiasmo è anche il Suite Museum disegnato da D’Alba a Uggiano, piccolo comune a pochi chilometri da Otranto, una residenza che schiude all’ospite il mondo ancestrale di questo brand situato al crocevia di arte, design, moda e architettura. Un osservatorio privilegiato per capire come un creativo vive questo periodo di quarantena. Lo abbiamo chiesto a Vincenzo D’Alba e a Francesco Maggiore.
Vincenzo, hai definito Kiasmo Suite Museum un “viaggio intorno alla mia camera”. In che cosa si è trasformato questo viaggio adesso che la camera è condizione universale e obbligata?
Al di là della quarantena, il viaggio attorno alla propria camera è una condizione necessaria perché, essendo un’apparente restrizione, permette di svelare le proprie attitudini. Come tutti i viaggi, anche questo porta alla scoperta e non può non sorprendere per la sua originalità ed eccezionalità.
Kiasmo Suite Museum nasce con la voglia di ricreare un “romitorio”, utilizzando una formula antica dove far coincidere pensiero e quotidianità.
È paradossale, infatti, come questo elogio della camera scritto da Xavier de Maistre, dal quale prendiamo riferimento, per certi versi coincide con un libro ipoteticamente opposto come Anatomia dell’irrequietezza. Afferma, infatti, Bruce Chatwin: ”Ho cercato di scrivere in luoghi come una capanna di fango africana […], un monastero del Monte Athos, una colonia di scrittori, un cottage di brughiera, persino una tenda. Ma quando arriva una tempesta di sabbia o comincia la stagione delle piogge o un martello pneumatico annienta ogni speranza di concentrazione, sempre mi maledico e mi domando “che ci faccio qui? Perché non sono alla torre?”.
Ecco allora come l’idea primordiale della casa, come luogo di rifugio, coincida, anche per il più estremo viaggiatore, o forse proprio per quello, con uno spazio da evocare e di cui avere nostalgia.
Per questo la casa di ciascuno di noi dovrebbe essere costruita su misura, in maniera sartoriale. Pensiamo, ad esempio, alla “casa come me” di Curzio Malaparte a Capri. Questo non deve far obbligatoriamente pensare a una casa griffata e inaccessibile, al contrario, si tratta di costruire un universo dell’abitare intimo, come estremo atto liberatorio.
Ça va sans dire, ovvero una forma di naturalezza e sensibilità che ognuno può adottare per riscoprire il piacere della casa.